mercoledì 31 dicembre 2008

"Voglio crederci, e tu?"

Ancora una volta risalivo quelle scale sotto un cielo ricolmo di stelle, mentre la vegetazione attorno emanava i suoi sussurri notturni. Arrivai di fronte alla porta di quella villa immensa, vi entrai e raggiunsi tutti gli altri che intanto mi attendevano nel soggiorno. Sopraggiunsi con il tradizionale sorriso di circostanza, oramai perfezionato nel corso degli anni, ma ciò che mi aspettava era profondamente diverso dal solito. Mi sarei atteso le consuete discussioni futili, le sigarette mai del tutto spente che dai posaceneri esalavano gli ultimi respiri, gli eleganti bicchieri di cristallo bevuti per metà e abbandonati per sempre al loro destino.

Eppure non trovai nulla di tutto questo. Quel ragazzo grosso e tozzo, per cui provavo una certa, burocratica stima, stava con il viso immerso tra le mani, dalle quali sgorgavano lacrime a goccioloni. Tutti gli altri erano attorno a lui e cercavano di consolarlo. Accortosi del mio ingresso nella stanza, alzò il capo e mi rivolse i suoi occhi che parevano dovessero incendiarsi da un momento all'altro, tanto erano rossi e gonfi. Mi disse con una voce che gli si strozzava in gola che lei se n'era andata. Per sempre.

Mi feci portare dagli altri alcuni stracci, li strappai, li legai fra loro, ci scrissi sopra. Ne avvolsi uno attorno alla sua fronte, ed uno attorno alla mia. Gli presi la mano e lo trascinai con forza fuori, mentre lui continuava a ripetermi che qualunque nostro tentativo sarebbe stato inutile. Lo scagliai con forza dentro la macchina, misi in moto e partimmo. L'aeroporto distava circa un'ora di macchina; lo raggiungemmo in mezz'ora. Durante il viaggio silenzio assoluto, a parte alcuni sussulti da parte sua, i sussulti che contraddistinguono un pianto nella sua parabola discendente.

Percorrevamo di corsa il lucido pavimento dell'aeroporto. O sarebbe meglio dire che mentre io correvo tirandolo per i baveri della giacca, lui si trascinava come se il suo corpo fosse solamente un involucro vuoto, senza alcuna energia interiore che lo animasse. E poi, finalmente, la trovammo. Attendeva di imbarcarsi. E d'un tratto lui si rianimò. Era quello il momento in cui tutto infine si ricongiunge, in cui ognuno concentra ogni singolo atomo che lo compone per ascoltare limpidamente se stesso. La chiamò, lei si voltò e si avvicinò a lui accarezzandogli il viso mentre le lacrime ripresero a sgorgare incessanti. Mi tolsi la fascia che portavo sul capo e la strinsi con forza, mentre continuavo a fissarli. Lei a un tratto appoggiò le labbra alle sue, per poi andarsene, senza voltarsi. Lui rimase impietrito, finché l'immagine di lei che si allontanava non scomparve. Ed allora mi raggiunse, e mi abbracciò con forza.

Rivolsi il mio sguardo verso quello straccio che stringevo in mano, ma non si leggeva più nulla. E mentre mi tornò in mente un pensiero che scacciai con forza, gli sussurrai all'orecchio: «Ti invidio amico mio, perché non arranchi all'angolo tra i disillusi. Dove sto anch'io».

2 commenti:

Fede ha detto...

grande nero, bella prova di scrittura! mi è piaciuta molto, tesa, essenziale.
inoltre ho adorato il "per cui provavo una certa, burocratica stima", molto maupassantiano! :)

Il nero ha detto...

Grazie Fede. Apprezzo molto, è piaciuto anche a mio frate. \o/