mercoledì 12 settembre 2007
Speciali
In treno, una ragazza che ha circa la nostra età e che ci appare attraente prende posto accanto a noi. Non ci dà particolari segnali né in senso positivo né in senso negativo, si appresta ad impegnare il tempo del proprio viaggio con qualche attività disposta precedentemente, ma forse non le dispiacerebbe scambiare due chiacchiere per ingannare l’attesa. Che cosa ci impedisce di avviare una conversazione? Pensiamo giustamente di dirle qualcosa di semplice e di cordiale, giusto per rompere il ghiaccio, ma all’ultimo momento non la giudichiamo una buona idea, e per questo tacciamo, seguitando a leggere il nostro libro. Perché abbiamo scelto di non parlarle? In un famoso film di Woody Allen, il regista americano mette in scena quella che si presuppone essere la peggiore reazione dell’altro a un nostro tentativo di approccio: il protagonista si avvicina ad una ragazza in un bar e le chiede con garbo se vuole bere qualcosa; lei risponde seccamente e a voce alta “Sparisci, sgorbio”. Ho riflettuto su questa interpretazione di Allen della paura del rifiuto, concludendo che fallisce in qualche modo il colpo. A mio modo di vedere, non abbiamo paura di essere umiliati o maltrattati, ma semplicemente di essere trattati come persone comuni, alla stregua di chiunque altro. Infatti una reazione di esplicita repulsione e di rifiuto manifesto non ci ferirebbe affatto, ma attiverebbe immediatamente i nostri meccanismi razionali di difesa: penseremmo di essere alla presenza di uno squilibrato o di una persona estremamente antisociale e sorrideremmo all’idea di raccontare la vicenda a i nostri amici. Invece ci terrorizza che l’altro non si accorga affatto della nostra unicità e che dal momento in cui cominciamo una conversazione al momento in cui la concludiamo non ci riesca di convincerlo che siamo persone speciali. Perché è così che ci riteniamo e che vorremmo l’altro ci considerasse: speciali, differenti da ogni altra persona. Aborriamo gli sguardi di indifferenza più di quelli di odio, perché l’odio è comunque un sentimento e ci fa sentire vivi. Vi siete mai accorti che nei film anche i protagonisti più sfortunati e inetti ci appaiono dignitosi e ci appassionano? Perché sono i protagonisti, le loro sventure non li privano della loro centralità nella storia, i loro sentimenti sono apprezzati dallo spettatore, non si perdono nel grigiume della folla. Temiamo proprio ciò che la società di oggi ci elargisce a piene mani: il disinteresse dell’altro.
Da un po’ di tempo a questa parte consiglio a tutti i miei amici di leggere Alexander Lowen: è una lettura dolorosa, ma necessaria. Nella sua opera "Il narcisismo. L’identità rinnegata" parla così del sentirsi speciali:
« La promessa dell’unicità è l’esca seduttiva usata dal genitore per modellare il bambino secondo una certa immagine. Nella maggior parte dei casi, la promessa non viene esplicitata, ma è implicita nel comportamento del genitore verso il bambino, che è in grado di avvertirla chiaramente. Nella cultura americana, la maggior parte dei genitori vuole qualcosa o ha bisogno di qualcosa dai figli. Per alcuni genitori il figlio deve aver successo nella vita, spesso per compensare un senso personale di fallimento. Per altri, il bambino dev’essere fuori dal comune, così da ricevere riconoscimenti che faranno sentire importanti i genitori. [...] I genitori tendono ad identificarsi coi figli e a proiettare su di loro le proprie aspirazioni e i propri desideri insoddisfatti. [...] Il patto, come abbiamo visto, è che il bambino verrà considerato “speciale” e trattato come tale se si sottometterà alle richieste del genitore. Tutti i narcisisti che ho incontrato “si sentono” speciali. Ho posto “si sentono” tra virgolette perché il sentirsi speciali non è una sensazione corporea, ma una costruzione mentale. »
Lowen tiene molto a fare quest’ultima distinzione. Le pretese dei genitori a cui è subordinato il loro amore per il figlio, provocano un distacco tra le semplici sensazioni corporee del bambino (quelle di frustrazione per un amore sempre condizionato e di risentimento verso il genitore) e l’immagine di unicità che egli è spinto a proiettare all’esterno. Se l’amore e la stima genitoriali sono sempre subordinati al raggiungimento di un traguardo (riuscire a leggere prima degli altri, essere il più bravo in uno sport, essere il leader di un gruppo) il bambino non tarderà a riconoscersi nell’immagine vincente che i genitori proiettano su di lui, cancellando la consapevolezza che ci sia qualcosa di sbagliato in quel tipo d’amore. Questa consapevolezza in realtà permane, ma nell’inconscio dell’individuo. Le sue azioni infatti saranno sempre spinte dal desiderio di ottenere amore, ma a causa della distorsione di cui ho parlato, avranno obbiettivi apparentemente assai diversi dall’amore stesso: il successo, il potere, la soggezione o la manipolazione degli altri. Il film di Orson Welles "Quarto Potere" è interamente basato su questa dinamica emozionale. Infatti Rosebud, lo slittino con cui Charles giocava da piccolo, rappresenta l’amore incondizionato della madre che egli non ha mai ottenuto e che lo ha spinto a “comprare” continuamente l’affetto degli altri attraverso il potere.
Prosegue Lowen:
« L’immagine si colora di eccezionalità, diventa fuori dal “comune”. Ma i valori associati all’immagine sono illusori; i valori veri si trovano nell’interiorità dell’essere, nell’umanità della persona e non nella sua immagine. Non c’è niente di speciali nell’essere umani; è la condizione comune, media, della gente. E se paragoniamo le qualità associate con “l’essere speciali” e “l’essere comuni”, ci accorgiamo che i veri vantaggi sono dalla parte della seconda condizione. [...] Una paziente mi disse: “Ho sempre pensato di essere speciale. Mi era stato detto che avrei potuto ottenere qualsiasi cosa avessi voluto se l’avessi perseguita con sufficiente determinazione, e io lo credevo. Ho conseguito tanti risultati, ma in un ambito importante non è servito, quello dell’amore.” »
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5 commenti:
Mi propongo di sviluppare queste idee in interventi successivi. Il saggio di A. Lowen citato è disponibile in edizione Feltrinelli (2007).
The philosopher is back.
Bello e interessante, ma lanciarmi in una lettura simile sarà complicato.
Ehi fede, di questa cosa, dell'amore incondizionato o meno, abbiamo parlato tante volte e ritengo sia un argomento da approfondire.
Associandami alla complessità di cui parlava 1co sarebbe bello magari leggere dei passi in gruppo e discuterli assieme.
bella l'idea del nero
Nero ma sei matto? Noi dobbiamo programmare a Javascript...
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